Alcune opere di Miriam Ravasio sono disponibili presso le eXclusive House Gallery di Teano (CE).
Il blues di Miriam – di Alessandro Cascio
Chi crede che l’arte sia intrattenimento lasci scorrere queste parole, magari le legga con gli occhi senz’anima di un assonnato, perché sostengono fermamente che l’arte fissa il tempo e lo dilata lasciando che i tormenti, e solo quelli, s’incarnino in materiali a cui il cielo ha dato vita ma non sentimento. Vi spiegherò come guardare gli artisti, ma in particolare, perché questo sono venuto a fare, quali occhiali indossare per mettere a fuoco l’arte di Miriam Ravasio. E’ facile, basta fissare il pensiero s’un solo momento della sua vita e lasciare che i colori vivaci, i giochi di luce e il circo d’immagini vi raccontino in mille modi e per diverse vie, un unico straziante spasimo.
Miriam Ravasio nasce nella provincia Lecchese negli anni ’50, solo pochi mesi prima della sua nascita l’Italia aveva conosciuto la televisione e la sua prima cabina telefonica, la comunicazione fino a quel tempo era avvenuta nel modo più celere e a buon mercato che l’uomo abbia mai conosciuto: con la chiacchiera e il pettegolezzo. Calolziocorte era poco meno di un borgo di ottomila anime sulle sponde dell’Adda, espansosi nei secoli da un modesto caseggiato fatto per lo più di pericolanti palafitte poste sulle rive della frazione di Lavello. Forse gli abitanti del paese col tempo avevano acquisito buon gusto estetico per le architetture, ma la povertà intellettuale mischiata alla ricchezza culturale che l’intingeva di una intellettualità inconsapevole, era rimasta quella di un tempo. Si dice che, in una famiglia con due figli, il più in gamba tra i due abbia imparato dagli insegnamenti del padre, il più saggio dai suoi suoi errori.
Nascere negli anni ’50 e crescere negli anni ’60 in un borgo del nord Italia voleva dire dover scegliere se essere se stessi fino in fondo od ornare con la propria presenza un caratteristico presepe ben innevato nei mesi invernali. Miriam non ebbe l’occasione di scegliere se essere leggera come la neve, un’occasione che il cielo per sua bontà dona a molti, o pesante e violenta come l’acqua dell’Adda. A soli tre anni, infatti, assiste al terribile incidente che causa la morte del suo fratellino e da quegli occhi sgranati e impauriti verranno fuori, negli anni avvenire, tutte le sue tele.
Ci si potrebbe fermare qui, questo è tutto ciò che c’è da sapere, se non fosse che ogni tema musicale al mondo ha bisogno di ornamenti, degli accordi, dei violini, delle linee di basso, del ritmato boogie woogie di un piano e dei lacrimevoli clarinetti alla Sidney Bechet. Il ritmo lo dà splendido e incalzante che quasi lo si canticchia a pensarci, la madre di Miriam che inghiottita dai tormenti fa scolpire su una lastra di marmo bianco la crudele scena di un bimbo inseguito da due ruote minacciose, costringendo la sua famiglia a vivere dei suoi sensi di colpa. Ah, potete sentirla quella tartassata scala blues che vi aggroviglia l’anima, vi rimbomba dentro come le chitarre di B.B.King e vi soffoca come il suo disperato The Thrill is gone: l’emozioni sono andate via, perse, te ne pentirai un giorno.
Ecco chi è quel bambino che vedete spesso nelle opere di Miriam Ravasio, eccovi spiegate quelle ruote. E non lasciatevi ammorbidire dai frivoli colori, frivolo è il Jazz, ma non è di quello che stiamo parlando. E poi arriva di colpo la litania del basso, corposo e ripetitivo come una malattia permanente che ti costringe a ricominciare da capo alla fine di ogni strofa. Cammina, siediti, riprovaci, cammina, siediti, riprova. Miriam viene colpita da piccola da un problema alle gambe e al bacino che la costringeranno a sottoporsi a una catena infinita di gessi, immobilizzazioni, operazioni, ma nonostante non possa correre e salire sugli alberi, è folle, è entusiasta, come chi deve fuggire da qualcosa ma non ha altri mezzi per farlo se non le vie lunghe e fluenti della percezione. Ed eccoli di colpo quei figurini immersi nella natura, itineranti, mobili, è impossibile per loro rimanere chiusi in un museo, nella vecchia casa di un collezionista.
Negli anni ’70 inizia il vero percorso sul campo, quello non fatto solo di astrazioni, ma di mani sporche e sudore. Inizia a lavorare per un colorificio disegnando quadri in cambio di tele e colori. La sua prima mostra fu un Happening, una performance prolungata della quale parlarono anche importanti giornali. Seguirono diverse esposizioni “dovunque soffiasse un certo vento, una fabbrica occupata, scuole, edifici in disuso”. Dopo aver esposto e venduto le sue opere per anni, un’esposizione alla collettiva di Milano e un’esperienza come segretaria della FGCI che le permisero di girare per mostre e musei nazionali la convinsero di voler imparare quello che l’indole da sola non può darti. “La mia ricerca era diventata un’ossessione, non mi piacevo più”. I violini, le viole, i violoncelli, arriva la musica ricercata che gli autodidatti snobbano, ma solo perché non hanno la capacità di affrontare difficili strumenti che rendono troppo evidenti e sgradevoli all’udito gli errori. Arriva la fatica, la malinconia degli archi che riproducono in complicati movimenti, dei semplici shuffle.
Con lo studio all’Accademia di Milano sopravvengono anche i problemi di salute, quattro interventi al Rizzoli di Bologna, gesso e immobilità prolungate alternate a faticose riabilitazioni che mettono a dura prova quell’ “esile corpicino ricamato dai tagli”. “A dipingere e a fare l’artista non ci pensavo più” dice Miriam, “però pensavo che forse avrei potuto lavorare come grafico. Provai inutilmente con le case editrici e poi all’improvviso il colpo di fortuna: l’incontro con il sig. Weissmann, un vecchio ebreo polacco agente di moda”.
Nel 1983 inizia un felice e abbastanza ben retribuito lavoro come ricercatrice d’immagini per tessuti, per teli jcquards e ricami, embroidery. Fra una collezione e l’altra collabora con compagnie teatrali come costumista o scenografa. Gli anni ’80 ridonano alla musica di Miriam un festoso piano boogie che accarezza (ma accarezzare non è toccare, non è palpare, è l’idea di qualcosa) la felicità e la spensieratezza tipica di quegli anni che la traghetta fino al 1995, anno in cui scrive e poi realizza in collaborazione con altri artisti e con il Centro di documentazione ebraica di Milano, uno spettacolo multimediale dedicato alla Shoah dal titolo “Sotto un cielo muto”: 180 disegni realizzati “leggeri” aerei come le gocce di pietà che cadono dal cielo dei Giusti. Solo cinque anni dopo arriva finalmente la sua prima personale. Nel Maggio e Giugno del 2000 apre alla galleria La Nassa di Lecco, una collezione di soli disegni, “Gli occhi e il cuore”.
La brama di cultura che da sempre l’aveva accompagnata (“ero appena uscita dal liceo e di frequentare accademia o università non se ne parlava, le grandi lotte ci avevano lasciato con il fiato corto, troppi debiti e oltre a me bisognava pensare pure a mio fratello che aveva dodici anni e tutto il diritto di fare una scuola importante anche lui”) non la lasciò mai, così decise di confrontarsi con quella che lei definiva la “sua abissale ignoranza” e con grande volontà cominciò a leggere e studiare i romantici tedeschi come Lessing, Schiller, Novalis, i classici, Goethe e ad affrontare la filosofia delle origini, Eraclito, Spinosa, e per la prima volta si accosta alla Bibbia. Quest’ultima sarà l’occasione per un lavoro colossale, trecento disegni incroci di letture e immaginazioni, la Bibbia e Bourbaki, Sergio Quinzio e le Madri, i tappeti del Kilim e frutteti e vigne. “Una sbronza che ancora mi tintinna in testa”. Tanta verve e tanto entusiasmo la spingono a presentare dei progetti di educazione dell’immagine nelle scuole, progetti pagati pochissimo ma sempre premiati ai concorsi scolastici sparsi per la penisola. Su questa esperienza scrisse il libro: “Occhio, manuale per l’educazione all’immagine”. Bisogna ballare e passo dopo passo bisogna, toccare, vedere, ridere, piangere, mangiare, bere, fare l’amore il più possibile, vivere più che si può perché la musica prima o poi finisce e non hai idea di cosa verrà dopo, se sarai in grado di muoverti allo stesso modo. Per Miriam arrivò la morte del padre che sì, era stata una figura silenziosa rispetto all’impetuosa madre, ma che in realtà teneva alla sua vena artistica, era la sua pausa tra una nota e l’altra, così impercettibile eppure così fondamentale. Al mattino l’aiutò a caricare i libri in auto e non lo vide mai più. “Quei monti che perlustravo con i bambini per disegnare gli Spazi di fronte” dice Miriam, “erano gli stessi monti delle nostre scappate domenicali”.
Ma la musica ricomincia, il ballo, anche se difficoltoso, continua. Legge Fulcanelli, Steiner, Il piccolo principe le appare immenso, così è per Pinocchio e Hugo e Magritte. “Prendo appunti e seguo la mia via nel labirinto. Avanzo sfoltendo, organizzando mostre ed esposizioni al solo scopo di chiudere le fasi del passaggio” che dura altri cinque anni.
La vita raccontata da Miriam è solo un punto di vista, non vuole svelare verità che non siano già state svelate altrove, da altri artisti, da altre anime tormentate, magari con nessun talento per l’arte. Per questo per amarla bisogna ritrovarsi con lei, per caso, nella stessa stanza o nello stesso bosco e allora ti parlerà a suo modo di un piccolo mondo creato il 22 Ottobre del 1952 in un freddo borgo di qualche anima e una in più, sul lago e da quello prenderà spunto per arrivare là dove solo le immagini e la musica possono arrivare e che noi possiamo solo sperare che esista, oltre ogni nostro dolore.
Il resto ai vostri occhi.
